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Mauro Pipani. Luoghi Riflessi


Luoghi riflessi - Monografica 1995/2018

La vera questione posta dalle operazioni di Mauro Pipani riguarda il loro costituirsi come crogiuoli complessi e stratificati concettualmente ben più che tecnicamente – e pure il suo fare è radiante e contaminato sino a estremi suggestivi – dal momento che i rimuginii e le impennate inventive che lo decidono mai guardano a se stessi, mai si pongono come questioni pittoriche autoreferenziali di ordine o deriva disciplinare (e men che meno di autodefinizione), ma si vogliono sempre necessitati da una nudità espressiva e da un sentire squisitamente poetico: sono segni precisi e intensi non perché portati a un alto grado d’evidenza ma perché meditati, e macerati, e interrogati, fatti rimontare alle scaturigini dell’idea stessa, quanto radiante in sé, di segno, e di segnare.

Nel percorso pluridecennale dell’artista ha un ruolo decisivo l’impronta dei primi anni settanta, quelli dei suoi inizi, in cui il retaggio dell’art autre si schiude a una pluralità si tensioni e sperimentazioni in cui si ridefinisce l’assetto stesso di ciò che il termine “artistico” include. L’atteggiamento post-painterly allora corrente consente inclusioni extramediatiche che vanno dalla suggestione tecnologica all’adozione sistematica di materiali adespoti, comunque estranei al pittorico sensu stricto anche quando, ed è il caso di Pipani, non venga posta in discussione la tipicità e l’alterità specifica dell’operazione pittorica. Non è un radicalismo cautelato, beninteso, il suo, ma un atteggiamento che proprio nel 1972 Francesco Arcangeli, nume intellettuale della Bologna in cui Pipani si forma, rivendica con forza alla XXXVI Biennale veneziana, scrivendo che “quella superficie piana e convenzionalmente rettangolare è un medium cui è ancora possibile, tuttavia, affidare tutto: tutto ciò che si è, che si pensa, a cui si aspira”.

L’inclinazione di Pipani non ha tuttavia lo stigma del colorismo (egli intende la tendenza alla monocromia come introiezione e introversione, un guardar dentro non un far vedere estrovertito), né intende la pittura come un “fare l’opera”, ovvero attuare, per usare l’espressione di Henri Focillon, un “tentativo verso l’unico” che “si afferma come un tutto, come un assoluto, e, nello stesso tempo, appartiene a un sistema di relazioni complesse”.

Egli si aggira con ben maggiore elaborante attenzione intorno a un’idea della superficie come spazio in se stesso autre, tra pagina ed écran mentale, su cui agisca un segnare che della figura e della parola scritta intende il prevalere dell’esprimere sul designare, e dunque in cui si dipani il tempo tutto qualitativo d’un agire che si ausculta come rabdomanticamente, tra grumi ove il senso può annidarsi e trame impreventive e mobili, ma proprio per ciò capaci di rivelazioni.

Gli spazi che egli si dà non sono certo quelli della blankness algida del concettuale, di una castità intellettuale posta in premessa e ottenuta per sottrazione, ché anzi egli accumula, contamina, stratifica, frammenta, arbitrariamente connette, usando pellicole e inchiostri, carte diverse per sostanza e smalti, pigmenti e polveri metalliche, legno e sale, alluminio, resine e, naturalmente, grafite: che è l’anima e la pulsazione prima della sua pratica, infine essenziale, del segno.

I suoi spazi sono, in prima e in ultima istanza, quelli del disegnare, del praticare un disegno aumentato capace di far convivere nel medesimo luogo momenti intuitivi e inventivi non logicamente relati ma nascenti da un unico non lineare stream emotivo, e di convocarvi fisiologie materiali precisate, provocando e accettando sconfinamenti e finanche incursioni cospicue in una objecthood mai neutralizzata nella convenzione astratta della bidimensione.

Il tempo concentrato e laborioso del fare è, per Pipani, quello del riconoscimento, della distillazione, della rimessa al mondo di un mondo: che è, in modo non diaristico ma ferocemente interrogativo, il suo mondo, ma trasceso sino a farne il nutrimento di opere plastiche d’autonoma, appropriata forza.

Egli procede, non può non procedere che, per seriazioni, ovvero per svolgimenti reiterati e serrati intorno al nucleo problematico primo che fa da innesco. In primo luogo perché ogni realizzazione considera se stessa non finita, o meglio unfinishing, dal momento che non prevede il perficere tipico dell’operare ritualizzato dell’arte e implica piuttosto, tra lavoro e lavoro, una trama spesso non decifrata e fastosamente oscura di relazioni, com’è semmai tra le pagine di uno sketchbook, senza soluzioni di continuità e di dignità e di intensità tra il crampo breve dell’idea e il far grande. In secondo luogo perché ognuna delle realizzazioni ha valore di tessera d’un più ampio comporre, come, per dire con Carlo Emilio Gadda, si trattasse “dei momenti-pause: (dei pianerottoli di sosta) d’una fluenza (o d’una ascensione) conoscitiva-espressiva”, di cui l’autore dispone, nelle situazioni espositive che egli calibra con sobria precisione, anche una lettura complessiva e a suo modo unitaria.

Cade pertinente una riflessione fondamentale che Michel Butor svolge a proposito di Pablo Picasso: “La nozione di un’opera come gruppo di opere, di una tela come implicazione di altre tele intorno a essa, è diventata così fondamentale per l’artista che perfino un quadro isolato diventa un caso particolare d’insieme”. A patto, naturalmente, di non ridurre il trascorrere dall’una all’altra come una sequenza intenzionata secondo una progressione ordinata, ma come vicenda astrattissima e privata di segni e di spazio (e annotava Gastone Novelli: “Che cosa è lo spazio? Sono delle piccole strade per passare”) fatta concreto luogo d’esperienza, misura significativa delle movenze dell’intelletto e della sensibilità mentale, del loro farsi eccitazione nervosa della mano.

Sistema di frammenti, è l’immagine, e a sua volta si dà come frammento, capace di un universo visivo ma in quanto infiniti sono gli universi visivi e linguistici possibili. La lettura, per coglierla, deve abolire ogni clausola convenzionale, accettare la condizione che qui lo spazio è, come vuole Henri Michaux, “immediato, totale. A sinistra, anche, a destra, in profondità, a volontà… In un istante c’è tutto. Tutto, ma nulla è ancora conosciuto. È qui che bisogna cominciare a LEGGERE”, in perfetta “libera circolazione” fra le tracce referenziali inghiottite e restituite in questa asistematica proliferante dei segni.

Quella di Pipani non è una pratica di raffinazione, egli ama e coltiva l’impurità, torna ogni volta al mondo, alle sue materie e ai suoi lacerti di forma, non rinuncia alle tattilità più risentite: e sono, queste, le trame che egli risente vitali, che lo connettono all’esistere e ai suoi luoghi, dei quali ausculta e assapora le radici sapendole quelle della sua identità d’uomo, di pittore, di poeta. È, il suo, un declinare la soggettività che non si concede il lusso dell’effusione né la memoria a ciglio umido, ma che si afferma come lucidità di coscienza. In una dimensione in cui il senso, unico possibile, è quello dell’intrinseca, energetica intensità dell’atto.

Nato sul mare, ma con i piedi ben piantati nella campagna, in un paesaggio al quale si sente di appartenere sorgivamente, egli conferisce a valori come superficie, riflesso, luce, atmosfera, una coloritura che ne costituisce l’anima stessa. Così come si avverte netta la sua predilezione per un far vedere il proprio lavoro non vagheggiando l’algido white cube che risolve troppe retoriche, ma tentando muri in cui ogni mattone, come scrisse un giorno Giovanni Guareschi, ha memoria della mano che l’ha carezzato collocandolo.

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