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Appena sotto la superficie



Non accade molto spesso che un’opera d’arte visiva, un quadro, non richiami alla mente lo spazio, ma piuttosto il tempo: eppure per i lavori di Mauro Pipani è qual che accade. Per convenzione linguistica e per l’evidenza dei suoi strumenti e dei suoi risultati, l’arte si sviluppa nello spazio sincronicamente, mentre è la parola che si sviluppa nel tempo, diacronicamente, dipanandosi una dopo l’altra sino a costruire il castello della narrazione. Perché allora un artista decide – perché certo la sua è un’espressione forte di volontà – di sfidare la convenzione linguistica e forse anche il buon senso percettivo, mettendo in scena nel quadro ciò che è così difficile da mostrare, il tempo?

Credo che dietro questa sfida ci sia l’urgenza interiore di salvare un patrimonio prezioso, che è quello della propria memoria.

Di fatto, è il territorio della memoria che può essere il luogo d’incontro tra i vari linguaggi, prima che questi prendano il sopravvento e con la forza dei codici linguistici e la necessarietà strumentale dei mezzi comincino a separare attraverso il linguaggio ciò che è ancora sensazione indistinta. È questo modo di sentire il mondo che Pipani vuole esprimere – esprimere, non narrare, né mostrare –, ed è per questo che l’artista cerca di calarsi in quelle zone della sensazione e della percezione che sono i luoghi dell’indeterminatezza, del ricordo, forse addirittura della nostalgia.

C’è infatti in queste “acque di superficie” un senso del tempo, di un proprio tempo individuale che scorre con quella levità e leggerezza, e che lascia sulla superficie delle cose una patina sottile, appena un’increspatura, un frammento di ricordo, che appartiene al fluire tranquillo della vita, e che costituisce il motore emotivo del lavoro di Pipani. Certo anche queste non sono ancora le considerazioni sul lavoro, appartengono anch’esse a quel territorio emozionale che non è ancora linguistico, cioè comunicabile agli altri attraverso un linguaggio, ma sicuramente sono la premessa indispensabile per comprendere il lavoro, altrimenti condannato a una vacua critica formalistica: le ragioni e le emozioni di Pipani si percepiscono in trasparenza nelle opere, proprio come trasparenti sono le “acque di superficie”.

Impossibile non pensare a una quiete sommessa, dove accadono piccole cose, piccole varianti dell’esistenza, guardando i lavori dell’artista, che volutamente assumono quell’apparente monocromia che costringe lo sguardo a un’attenzione penetrante, più lenta degli sguardi consueti che dedichiamo al mondo: non è la contemplazione fissa dell’universo, che riesce a scrutare nell’abisso, qui l’acqua non è profonda, ma per vedere il fondo distorto è necessario saper valutare con una speciale sensibilità i minimi spostamenti degli oggetti, che poi sono la metafora dei ricordi, anch’essi “spostati” dalle costruzioni spesso arbitrarie della memoria, e totalmente arbitrarie della nostalgia.

Pipani agisce dunque sul registro della memoria, e lo fa con una sapienza visiva e costruttiva notevolissima, dimostrando di saper usare del linguaggio pittorico senza sbavature, senza scivolare in quell’eccesso sentimentale che è il rischio maggiore per chiunque decida di mettere in scena un’emozione sottile qual è quella del ricordo. Sfuggire a questo pericolo si può soltanto attraverso il paradosso di un uso calcolato dell’artificio che il linguaggio della pittura mette a disposizione dell’artista: è l’equilibrio di questi due elementi – il senso della memoria e il dominio strumentale degli artifici linguistici – a consentire di affrontare quella sfida di cui si parlava all’inizio, per cui si invade un territorio difficile da conquistare con le armi della pittura.

Senso della superficie, attenzione quasi maniacale alla variante, piccoli giochi di spostamenti visivi, allusioni sentimentali attraverso la parola, poetica del frammento, una differente ripetizione, impaginazione sapiente nel singolo lavoro come nella composizione seriale di cicli espressivi, uso dei materiali per analogia o per differenza – una pagina sottile accostata e sovrapposta a un foglio trasparente, oppure una lastra di alluminio in cui una scrittura quasi settecentesca è vicina al numero di serie del manufatto – sono gli elementi base della costruzione pittorica di Pipani: la loro scelta e le loro stesse varianti consentono combinazioni praticamente infinite che richiedono a chi le costruisce quella capacita di fermarsi un attimo prima dell’ovvio, e a chi le guarda una sorta di partecipazione non abbandonata, ma lucida.

Infatti, proprio perché si tratta di una pittura tutt’altro che gridata, tutt’altro che espressionista, il suo senso e la sua necessità derivano dalla capacità di percepirne le sottigliezze nascoste. È un lavoro che non ci corre incontro, ma piuttosto si ritrae, ed è per questo che nel guardarlo ci viene richiesta una sorta di attenzione analoga a quella che l’artista ha posto nel realizzarlo: è più difficile distinguere le varie tonalità del grigio che vedere il bianco e il nero…

Ma c’è anche un’ultima considerazione che conclude felicemente questo incontro di Pipani col rischioso territorio del tempo della memoria. Non soltanto infatti mette in scena quella sorta di lentezza percettiva, di sfasamento temporale dello sguardo, ma agisce secondo quei ritmi. In altre parole, per quanto mitigato dalla sapienza fabrile, dalla capacità di gestire gli strumenti della pittura, Pipani non muove dal gioco della nostalgia, attuato attraverso il linguaggio, per arrivare a quella regione prelinguistica del senso, della sensibilità e del sentimento, ma percorre il cammino inverso, da quel territorio magmatico del senso al bisogno di esprimerlo con i modi e, soprattutto, con i tempi di quello stesso territorio interiore. Essere riuscito a comunicarlo è già di per sé la dimostrazione della necessità di questo suo lavoro.

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